Wikiradio, Giancarlo De Carlo (IT)
2021
RE03

Il 4 giugno 2005 moriva Giancarlo De Carlo, figura scomoda dell’architettura italiana della seconda metà del Novecento.

Architetto di fama internazionale, docente nelle migliori università americane anche se marginalizzato dal mondo accademico italiano, è stato soprattutto un intellettuale libertario poliedrico, un osservatore attento delle trasformazioni sociali del Novecento, fondatore dell’ILAUD, una scuola innovativa multidisciplinare, organizzatore di esposizioni memorabili, creatore di collane editoriali originali per le maggiori case editrici, fu un ottimo scrittore e saggista.

Nella sua lunga carriera GDC rimane sempre a margine del discorso dominante.

Egli fu critico verso qualsiasi formalismo estetico o tendenza stilistica e si oppose con forza ad una pratica autoreferenziale dell’architettura.

Per De Carlo l’architettura non è la creazione di un oggetto ma è piuttosto pensare ad un metodo, è un processo dinamico in continua evoluzione che ingloba tutto (lo spazio) e tutti (la società). Spazio e Società e così il titolo della rivista da lui fondata nel 1978.

Molto sensibile quindi alla dimensione sociale del progetto e al dialogo costruttivo con il passato, l’architettura di GDC tiene sempre conto del contesto, dello spazio e della società. Perché L’architetto non può ignorare il luogo, la stratificazione storica, la complessità sociale dove interviene. Ed è per questo che De Carlo ogni volta costruisce un rapporto stretto e evolutivo tra l’architettura e il luogo dove si trova. Perché « I luoghi parlano » come spesso diceva. Ma fa di più, nel progettare non si limita a tenere conto del contesto storico, economico e sociale ma nel suo fare architettura GDC cerca soprattutto d’iscrivere il progetto contemporaneo nella stratificazione storica e sociale come un nuovo strato che partendo dai precedenti ne aggiunge con coerenza complessità.

Contestualizzare il progetto significava per DC procedere sempre per tentativi, coinvolgendo ad ogni tappa nuove figure, nuove discipline, nuove situazioni. Per questo De Carlo aveva una rara capacità di ascolto con tutte le figure che gravitano attorno ad un progetto di architettura e fu il primo in Italia a praticare il progetto partecipato. Perché così come è importante iscriversi nel contesto anche la complessità umana non può essere negata dal progettista ma deve essere utilizzata come punto di forza.
« La verità è che nell’ordine c’è la noia frustrante dell’imposizione, mentre nel disordine c’è la fantasia esaltante della partecipazione »

Per tutti questi motivi GDC si oppone con severità prima alla tabula rasa del modernismo e al dogma dei funzionalisti e poi al formalismo storico del post-modernismo degli anni 70-80, o all’apologia dei non-luoghi del fuck the context degli anni 90 e infine all’architettura spettacolo che ancora domina il dibattito odierno dell’architettura.

La lezione storica e morale di GDC è tornata d’attualità dopo anni di oblio in questi ultimi decenni
un po’ come un antidoto allo star system dominante e un po’ a seguito della riscoperta del progetto partecipato di cui GDC fu tra i primi se non il primo in Italia a praticarlo.

Ma come descrivere una figura così complessa, un architetto che rifiuta qualsiasi luogo comune e che sfugge ad ogni etichetta e movimento ? Ebbene è solo attraverso l’analisi delle sue architetture che è possibile rendersi conto dell’importanza di GDC per l’architettura del XX secolo.

Allora concentriamoci su tre momenti principali per introdurre l’opera di De Carlo.

1. OPPOSIZIONE AL MODERNO
Gli esordi in piena ricostruzione post-bellica che lo vedono opporsi in tempi non sospetti all’ideologia modernista. Un’opposizione al moderno che lo porta con grande coraggio a realizzare dei progetti d’avanguardia e a teorizzare un fare architettura innovativo attraverso esposizioni e pubblicazioni.
A Sesto S Giovanni nel 1950, in piena ricostruzione post-bellica quando l’architettura modernista che odia il passato è onnipresente, DC costruisce un edificio per appartamenti che ripropone il modello tradizionale della casa a ballatoio, una tipologia vernacolare con forme modernissime. Dal punto di vista formale l’edificio è prettamente razionalista, un blocco compatto organizzato funzionalmente in base all’esposizione del sole : i servizi a nord sui ballatoi, le camere e il soggiorno a sud su grandi logge. A prima vista quindi si tratta di un esercizio funzionalista egregiamente eseguito ma è con l’uso pratico da parte degli abitanti che ci si rende conto che il modello tradizionale della casa a ballatoio prende subito il sopravvento. La socialità che si esprime sui ballatoi, in teoria destinati ai servizi, è una messa in discussione della natura privata della cellula di abitazione cara ai modernisti che doveva esprimersi unicamente nelle logge individuali esposte sull’altra facciata. DC dirà che per lui questo progetto fu una sorta di verifica della rigidità della dottrina modernista, egli passerà ad osservare l’uso da parte degli abitanti dei ballatoi e si rese conto che le logge a sud erano usate come servizi colme di panni stesi al sole e che la gente era invece tutta a Nord con sedie e sgabelli sui ballatoi per partecipare collettivamente come attori e spettatori alla vita di quartiere. La luce, l’orientamento, il verde è importante ma più di tutto conta vedersi, parlare, stare insieme e comunicare.
Questo primissimo progetto è così una sorta di rivelazione della socialità nell’architettura che guiderà in seguito tutto il lavoro di DC.
Stiamo nel 1950, in piena costruzione dell’unità di abitazione di Le Corbusier in Francia, paradigma architettonico del nuovo abitare collettivo, l’ideologia dei funzionalisti è all’apice ed è presente ovunque, DC con i suoi ballatoi di Sesto San Giovanni già è passato ad altro.
al di là dell’Unità di abitazione di Le Corbusier che De Carlo definisce « fortezza fragile » e della quale dirà più tardi « si è coltivato un sogno opposto che l’architettura possa rappresentare solo sé stessa essendo i suoi destinatari un accidente fastidioso »
Nel 51 e nel 54, altri due progetti emblematici lo spostano sempre di più lontano dal modernismo, con un approccio che potremmo definire neo-realista, Le case di Baveno e il concorso per il quartiere Spine Bianche a Matera sono delle sperimentazioni di forme abitative complesse, diffuse e al tempo stesso dense, che si oppongono formalmente allo stile internazionale e riprendono senza dubbio il vocabolario dell’architettura vernacolare. A Baveno sei unità abitative sono raggruppate sotto ad un unico tetto a falde e disposte in modo da tale da favorire e promuovere la vita in comune e la relazione diretta con la natura (il lago e la montagna). Questa volta tutto il progetto è incentrato sula vita in comune e la socialità sperimentata dal vero a S San GIovanni senza nessuna concessione ideologica al funzionalismo, DC scriverà su Casabella nel 54 «  Dall’esperienza di Sesto San Giovanni nasce il progetto di Baveno ». E a Matera, quando è chiamato a costruire un nuovo quartiere destinato ad accogliere gli abitanti dei Sassi, ritenuti insalubri e che il progresso della nuova architettura moderna deve poter sostituire, DC propone una sfida all’ideologia dei cinque punti chiave del linguaggio architettonico moderno, al posto del tetto piano è proposto un tetto a falde in tegole, al posto della finestra a nastro, ci sono delle grandi finestre verticali, invece del calcestruzzo o intonaco è utilizzato il mattone a vista. Tutte scelte formali che non sono giustificate solo da un’opposizione formale ma soprattutto da una riflessione sulla relazione tra contesto e fruitori. Si tratta di proporre un nuovo paradigma : le funzioni moderne possono e devono svilupparsi attraverso tracce riconoscibili delle tradizioni e delle specificità locali.
Il progetto del concorso di Matera è presentato all’ultimo CIAM di Otterlo del 1959 ed è accolto con critiche violente, DC viene accusato di tradimento della nozione moderna di spazio e tecnica, d’imporre contenuti sociali retrogradi, di scegliere forme che appartenendo al passato sfuggendo al ruolo moderno d’inventare il futuro. Tutte queste critiche che restano prettamente ideologiche e formali, non colgono ciò che DC cerca di fare e che farà per tutto il seguito della sua vita : elaborare nuovi metodi e strumenti, andare al di là dell’oggetto, in modo da affrontare i problemi in divenire della società moderna. Spostare l’architettura dall’arte verso nuovi orizzonti, con modestia e intelligenza, rifiutando la tabula rasa e senza cedere alla rigidità sociologica. Un po’ come il rifiuto dello « sviluppo senza progresso » caro a Pasolini.
« Volevo mi fosse riconosciuto il diritto di progettare e costruire in modo diverso in ogni luogo diverso. Chiedevo che la mia architettura fosse considerata risultato di forze che arrivavano da molte direzioni : forze del reale, espressioni delle caratteristiche dei luoghi e delle culture dei loro abitanti ».

E non è a caso che in questo stesso periodo De Carlo organizza una mostra sull’architettura spontanea e vernacolare per la IX Triennale ed è sempre in questa prima parte degli anni 50 che con Elio Vittorini per la X Triennale propone tre cortometraggi incentrati sulla critica al funzionalismo al tecnicismo burocrate introducendo con molto anticipo il progetto e l’urbanistica partecipata « il piano deve essere fatto dagli uomini e per gli uomini. Il piano urbanistico deve essere il risultato della partecipazione di tutti ».

2. PARTECIPAZIONE E IMPEGNO POLITICO
All’opposizione al moderno degli esordi passiamo quindi ad un secondo aspetto della vita di De Carlo. Quello legato al progetto della partecipazione e dell’impegno politico libertario.
Nel 1968 DC è chiamato a organizzare la 14è Triennale. La Triennale sfortunatamente non si terrà, l’esposizione sarà distrutta a seguito di una manifestazione il giorno stessa dell’inaugurazione. Siamo nel ’68 periodi di grandi cambiamenti e lotte politiche, una foto rimasta emblematica raffigura De Carlo, da solo, che tiene testa ai manifestanti cercando un dialogo costruttivo al di là di ogni ideologia, va detto infatti che l’edizione della Triennale andata distrutta poneva l’accento sull’opera d’architettura come processo sociale, sull’architettura come ambiente e sul rifiuto dell’oggetto come merce, un’edizione estremamente radicale e non proprio lontano dalle maggiori rivendicazioni del movimento del 68. In questo contesto, l’anno dopo, nel 1969, GDC dà vita ad un grande esperimento di progettazione partecipata per la costruzione dell’insediamento residenziale di Terni. Il nuovo quartiere per gli operai delle acciaierie sarà progettato coinvolgendo tutti i fruitori attraverso un processo aperto di scambio, un « progetto per tentativi ». De Carlo architetto fa un passo indietro per lasciare la scena agli abitanti, cerca di spostare lo sguardo dell’architetto verso l’esterno per poter lavorare meglio alla complessità sociale dell’architettura.
Il progetto partecipato permette a DC di passare finalmente alla progettazione intesa come processo collettivo e non come disegno imposto di un oggetto. Un processo critico che si costruisce attraverso ipotesi e verifiche continue, dei tentavi che permettono a chiunque di contribuire alla creazione formale e alla comprensione dei bisogni. Ciò che interessa a DC è la definizione di un metodo al di là di qualsiasi ricerca formale.
A Terni riesce ad imporre al comittente un processo progettuale basato sul continuo scambio con gli operai e al di là di ogni strumentalizzazione politica. DC organizza prima una fase pedagogica attraverso una mostra su casi esemplari di edilizia residenziale, poi propone un piano con edifici paralleli a tre livelli e percorsi trasversali a più piani, infine, gli alloggi, la loro densità e tipologia sono definiti dagli operai stessi. In sintesi è proposto uno schema tridimensionale semplice sul quale vengono inserite le abitazioni determinate dopo intensi scambi che permettono di definire e ridefinire desideri e bisogni particolari.
Il risultato finale sarà un progetto di un quartiere-città formato da 800 alloggi con 45 soluzioni tipologiche diverse, unità abitative con accesso diretto alla strada, giardino per ogni alloggio, 5 tipi edilizi di base modulabili in 15 varianti. Una « molteplicità di risultati » che permettono una flessibilità e una disponibilità al cambiamento, è questa « richezza di significati » come la definisce DC, che contrappone l’architettura della partecipazione all’architettura autoritaria.
Il progetto di Terni funziona perché non solo è concepito con gli abitanti ma perché si basa su un sistema di spazi e percorsi pensati per favorire le relazioni e l’esperienze collettive. Un organismo urbano complesso fatto di percorsi pedonali che connettono su diversi livelli tutti gli spazi pubblici e semipubblici e un’integrazione spaziale tra giardini privati e aree verdi pedonali.

Con il progetto partecipato a Terni, DC sfugge al rischio di creare un manifesto politico e dimostra che includere gli abitanti non significa trascrivere unicamente quello che gli utenti chiedono ma che il ruolo dell’architetto rimane principale, il ruolo del progettista così non è mortificato né annullato ma è arricchito di nuove funzioni.

Il progetto di Terni, al di là dell’innovazione della partecipazione, è un progetto che segue il metodo che potremmo azzardare a definire decarliano, un processo dinamico che permette di creare delle forme architettoniche complesse e allo stesso tempo familiari attraverso tre fasi

Interpretazione dei luoghi
Formulazione di processi appropriati di approccio a questi luoghi
Materializzazione di funzioni e bisogni tramite spazi che permettono dei cambiamenti futuri

Dodici anni dopo, nel 1980, in un contesto politico sociale completamente diverso dal 68 di Terni, De Carlo riesce a riproporre questo metodo a Mazzorbo, nella laguna veneta, questa volta la partecipazione è impossibile perché gli utenti non sono ancora definiti ma il risultato è altrettanto molteplice e complesso. Si tratta ancora una volta di rispondere alla questione di una nuova architettura domestica in un contesto caratterizzato da una tradizione costruttiva particolare. Non siamo più nel 68 dove la politica invade la creazione artistica e architettonica ma nel 1980 in pieno movimento post-moderno che reutilizza le forme storiche e la tradizione unicamente come espediente formale. DC che si oppone saggiamente a questo nuovo formalismo pagandone il prezzo con una marginalizzazione dal dibattito architettonico, progetta trentasei case nella laguna veneziana attraverso un metodo similare a quello di Terni tramite la creazione di una mini-città fatta da unità abitative di base che variano attraverso molteplici combinazioni, DC voleva, come scriverà più tardi, che « le case apparissero alla gente come se già fossero state da sempre là e al tempo stesso come se invece non vi fossero mai state : familiari ma anche sorprendentemente nuove » In sintesi, una nuova architettura vernacolare, DC unisce il moderno e la tradizione, reinterpretando il contesto e stabilendo un nuovo rapporto con la natura della laguna. La libertà della composizione, l’utilizzo accurato del colore, la creazione di forme familiari fanno del progetto di Mazzorbo un nuovo pezzo di città comprensibile a tuttI. Ne risulta una grande lezione di architettura ai post-modernisti sul rapporto tra tradizione e modernità e ancora una volta tra spazio e società.

3. URBINO
Ma al di là di questi lavori, la figura professionale di GDC è intimamente legata alla città di Urbino. Un rapporto umano e professionale di più di 50 anni lega l’architetto con la città marchegiana. DC dedica tutta la sua vita a Urbino in una relazione rara che permette all’architetto d’intervenire e confrontarsi per un lungo periodo su un intero territorio al pari di un architetto rinascimentale.
Il primo incarico è del 1951, gli ultimi interventi sono del 2005, per tutti questi anni, ininterrottamente la ricca città di Urbino e il suo territorio sono ridisegnati con cura attraverso interventi moderni sempre coerenti con il contesto storico eccezionale e il paesaggio naturale unico.
Nel 1958 DC è chiamato alla stesura del PRG, questo lavoro costituirà la base per tutta la serie d’interventi futuri. La questione di base non era semplicemente il restauro della città storica ma come evitare che la struttura unitaria rinascimentale della città non venisse divisa in zone in base alle funzioni moderne, proporre invece che città storica e estensioni moderne, centro edificato e paesaggio naturale continuassero a far parte di un’unità indissolubile. L’approccio urbanistico di DC per Urbino è estremamente innovativo per la fine degli anni 50 e l’inizio dei 60. Non solo DC va oltre il concetto moderno di zone monofunzionali ma anche la teoria emergente legata alle nozioni di tipologia e morfologia che dominerà poi tutta l’urbanistica italiana del XX secolo è completamente ignorata da DC. La forma urbana non è generata unicamente da una sola funzione e al tempo stesso è impossibile costruire delle regole generali astratte a partire da un catalogo di tipi edilizi. La complessità dei luoghi non può essere ordinata da queste teorie e allora DC, in maniera organica, interpreta il contesto specifico andando a analizzare il progetto rinascimentale quattrocentesco di Urbino di Francesco di Giorgio Martini per riproporlo e ristrutturalo secondo la contemporaneità.
Gli interventi ad Urbino variano quindi tra il progetto di un nuovo pezzo di città e di paesaggio, con i collegi universitari costruiti durante vent’anni dal 1962 al 1983, a nuovi innesti nella città storica come la Facoltà di Magistero e alla riscoperta di sistemi urbani della città rinascimentale come per la rampa di Francesco di Giorgio al Mercatale.

Lo studio della complessità di Urbino, la lettura delle fonti storiche rinascimentali, consente a DC d’interpretare e riproporre quell’insieme di relazioni tra spazio fisico unitario e i singoli episodi che lo compongono rompendo di fatto l’opposizione tra conservazione e innovazione.

Per i collegi universitari DC disegna una serie di cellule abitative disposte secondo l’andamento del terreno, la serialità è cancellata da questa sistemazione che permette d’integrarsi nel paesaggio generando al tempo stesso una serie di nuovi punti di vista sul territorio. Gli studenti sono così spettatori e attori del paesaggio. Una serie di percorsi semipubblici trasversali favoriscono l’incontro, la contemplazione, la sorpresa. L’uso del calcestruzzo a vista conferisce all’insieme un aspetto al tempo stesso moderno e naturale, a più di quarant’anni di distanza la natura ha modificato e plasmato la materia minerale integrando ancora di più il progetto originario nel paesaggio.

Per la Facoltà di Magistero, DC propone un vero e proprio intervento chirurgico nel centro antico, realizzando un insieme di attrezzature e servizi di cemento, ferro e vetro. La sala del magistero semi-circolare è perfettamente inserita nel tessuto storico come se fosse stata lì da sempre.

Nell’operazione Mercatale DC scopre letteralmente la rampa rinascimentale che permetteva al duca di Montefeltro di raggiungere il palazzo ducale a cavallo. Un vero e proprio sistema urbano andato perduto con le sovrapposizioni architettoniche successive ed in particolare con la costruzione di un teatro neo-classico alla sommità della rampa. DC riprogetta l’insieme attraverso il recupero della rampa e la ristrutturazione del teatro ritrovando così il percorso urbano dalla piazza inferiore, nuova porta della città e la parte alta del palazzo ducale. Restituire la rampa agli urbinati, ripensare il teatro ottocentesco in relazione alle viste sul palazzo ducale, alternare il restauro filologico sulle parti storiche e l’uso di materiali contemporanei.
Affianco alla rampa di Francesco di Giorgio poi DC disegna tra il 1998 e il 2005 l’orto dell’abbondanza, ultimo episodio della vicenda urbinate dell’architetto, progetto inseguito per più di quarant’anni e mai realizzato, che prevede per le antiche scuderie rinascimentali in rovina la trasformazione in museo della città. L’architetto propone un sistema autoportante in acciaio e vetro che reinterpreta il volume delle antiche scuderie alternando gli spazi espositivi con degli spazi verdi a cielo aperto. Il progetto è poi connesso direttamente al percorso urbano della rampa e si integra nel paesaggio della città storica. La sezione del nuovo edificio è disegnata dopo un lungo lavoro di analisi delle proporzioni rinascimentali dell’edificio originale. Una serie di critiche aspre e ostruzioni della sovrintendenza obbligheranno infine DC a rivedere il progetto originario.

In sintesi, sono due i grandi temi che DC tratterà tutta la sua vita, il rapporto con l’antico, quel rapporto fragile e complesso tra innovazione e tradizione, e la relazione tra lo spazio costruito e la società che lo abita.
La lezione di DC resta attuale anche se poco seguita, fare architettura attraverso il dialogo con la gente, interpretare i luoghi attraverso l’esplorazione soggettiva della città, cercare la sfida con la scienza, definire un metodo ogni volta specifico, costruire un nuovo linguaggio che non neghi l’antico, sfuggire l’oggetto artistico ma definire un metodo tramite una ricerca per tentativi e una progettazione per paesaggi perché in fin dei conti, Non ci sono stili, formule e idee universali che ingabbino la libertà dell’architetto e degli uomini.

3. URBINO

4. RAPPORTO CON L’ANTICO
Catania
Siena
Colletta di Capobianco

 

 

 

 

1. OPPOSIZIONE AL MODERNO
Edificio per appartamenti a Sesto San GIovanni (1950)
IX Triennale (1951)
Case di Baveno (1951) Quartiere Spine Bianche Matera (1954) Neorealismo
X Triennale (1954) «Ma soprattutto
CIAM Dubrovnik Team X (1956)
1959 CIAM Otterlo

2. PARTECIPAZIONE E IMPEGNO POLITICO
Insiedamento residenziale Terni (1969)
Mazzorbo (1980)